Carboidrati sì o no per dimagrire?

Carboidrati sì o no per dimagrire?

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Questa domanda, apparentemente banale, da decadi divide gli esperti di nutrizione e indirettamente dà vita a due grandi gruppi contrapposti:

1. Nutrizionisti che aderiscono alle tesi classiche che sono in genere a favore dei carboidrati e piuttosto negative nei confronti di proteine e grassi

2. Nutrizionisti a favore di varie correnti di pensiero che tendono a vedere i carboidrati come il difetto maggiore della nostra alimentazione

La logica dietro le due diverse posizioni è ovviamente diversa. Nel primo caso si dà enfasi alle nozioni di nutrizione accumulate in particolare nel dopo guerra e strettamente connesse agli studi sulla dieta mediterranea di Ancel Keys e del suo Seven Countries Study che influenzarono profondamente, a torto o a ragione, l'opinione degli scienziati.

Le posizioni di Keys erano fortemente a sostegno di un'alimentazione ricca di carboidrati e diedero fama alla dieta mediterranea e spunto alla creazione della tradizionale piramide alimentare che infatti vede alla sua base i cereali.

Negli anni Keys ricevette molte critiche proprio per il non aver compreso l'effetto negativo che un eccesso di carboidrati raffinati e zuccheri ha sul metabolismo di una persona e sulla produzione di insulina in particolare se il soggetto è sedentario.

Dalle critiche al Seven Countries Study nacquero numerose altre correnti di pensiero, a volte sostenute da dati scientifici, altre semplicemente da un grande clamore mediatico: dieta a Zona, Atkins, chetogenica, Dukan e paleolitica, sono solo alcuni esempi di una lunga serie di approcci che hanno come elemento in comune la tendenza a ridurre l'apporto di carboidrati a favore di quello di proteine e grassi. Oggi il contenimento estremo dell'apporto di carboidrati viene considerato un modo più efficiente di ridurre il grasso corporeo ed esistono dati a sostegno di questa tesi, ma il quadro potrebbe essere più complesso di così.

PER APPROFONDIRE: Quanti e quali carboidrati assumere? 3 errori comuni

In primo luogo è necessario fare una premessa: la maggior parte degli studi sull'alimentazione ha delle pecche strutturali che rendono difficile estrapolare da essi informazioni definitive.

Senza entrare nel dettaglio, ricordo che la ricerca biomedica si suddivide in due grandi categorie: gli studi di osservazione e quelli sperimentali. Nel primo caso si "osserva" appunto cosa accade nel tempo a soggetti con caratteristiche differenti, ma non si controllano tutte la variabili come si fa invece in un vero esperimento.

In questo caso infatti due gruppi vengono trattati in modo diverso e si confrontano i risultati nel tempo. Per questo si dice che gli studi in cui si osservano i soggetti non possono mai identificare un rapporto di causa-effetto tra due fenomeni, ma solo l'esistenza di una relazione, mentre gli studi sperimentali servono proprio per capire le conseguenze dirette di un particolare intervento.

La stragrande maggioranza di ricerche in ambito nutrizionale sono osservazioni e quasi mai le ipotesi che emergono da esse vengono poi ulteriormente studiate con ricerche sperimentali.

Questa premessa può sembrare complessa, ma è fondamentale se si vuole comprendere qualcosa in più della discussione attorno all'alimentazione e alle diete.

Uno studio recente, pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet, sembra indicare che una dieta a più alto apporto di carboidrati sia vantaggiosa in termini di mortalità. I ricercatori hanno studiato oltre 15.000 soggetti e sono giunti alla conclusione che le persone hanno rischio di morte ridotto quando circa il 50-55% dell'introito calorico proviene da carboidrati.

Attenzione però prima di sostenere che pasta, pane e pizza fanno benissimo. Prima di tutto anche in questo caso si tratta di uno studio di osservazione e quindi non possiamo dire nulla sul fatto che sia proprio per quella percentuale di carboidrati più elevata che le persone hanno un minor rischio di morte. Per poter dire questo sarebbe necessario fare un confronto sperimentale diretto e protratto per decadi tra due gruppi assolutamente identici per ogni variabile tranne che per l'apporto di carboidrati.

Visto per esempio che nel momento in cui si assumono meno carboidrati si mangiano più proteine e grassi, possono essere gli alimenti da cui provengono questi due macronutrienti a fare la differenza. Del resto sappiamo bene che mangiare il 30% di calorie da proteine che provengono in prevalenza da pesce e carni magre sia ben diverso che assumere salsicce e hamburger.

 

Anche in questo caso quindi i dati vanno presi con le pinze, ma vale la pena usare la pubblicazione di questo studio come pretesto per fare qualche ragionamento in più.

Una delle ragioni per cui alcune diete che hanno un fondamento scientifico, come quella paleolitca, sono contrarie all'eccesso di carboidrati è che certamente l'homo sapiens ha assunto per decine di migliaia di anni quantità ridotte di carboidrati e zero cereali. Ma anche in questo caso occorre essere cauti: quello che mangiamo si lega in maniera profonda ad altri aspetti della nostra vita.

In antichità l'uomo viveva molto meno perché moriva rapidamente di cause naturali e gli anni che viveva non erano caratterizzati da una presenza costante di elevati livelli di stress psico-fisico.

La mia ipotesi è quindi che i nostri antenati potessero tollerare meglio bassi livelli di carboidrati.

Oggi invece mangiare pochissimi carboidrati comporta un aumenta del cortisolo, l'ormone dello stress che è già elevato nella maggior parte di noi. Il cortisolo troppo alto non solo rende difficile perdere grasso, ma anche contribuisce a peggiorare la nostra salute in senso lato. Magari è proprio l'azione anti-stress di percentuali più elevate di carboidrati che porta alla riduzione di mortalità osservata nello studio menzionato prima.

Da anni sostengo che una suddivisione vicina a quella della dieta a Zona con circa il 40% di carboidrati, il 30% di proteine e il 30% di grassi sia la scommessa migliore.

PER APPROFONDIRE: Carboidrati buoni e carboidrati cattivi: quali sono le differenze?

Ma ci sono altri due fattori che da sempre ritengo siano di fondamentale importanza:

1. Tipologia di carboidrati

La differenza tra assumere il 50% o il 40% delle calorie totali da carboidrati (premesso che nessuno lo calcola se non quando va dal medico nutrizionista) è molto meno importante della differenza in termini di azione metabolica che esiste tra zuccheri, cereali raffinati, cereali integrali, tuberi e verdure. La maggior parte dei carboidrati dovrebbe derivare da verdure, frutta, tuberi e cereali integrali, capaci di evitare quell'impatto eccessivo sulla produzione di insulina tipico invece di zuccheri e cereali raffinati.

2. Momento di assunzione

L'assunzione di cibo non avviene nel vuoto, ma nel contesto di diverse condizioni metaboliche in cui si trova il nostro organismo. Perfino assumere zuccheri a riposo o subito dopo un allenamento fa un'enorme differenza perché in questo caso possono servire per il recupero, mentre nel primo caso fanno solo ingrassare. La colazione e la cena (contrariamente a quello che molti sostengono) sono anche momenti importanti per l'assunzione di carboidrati corretti (non zuccheri) in quanto contribuiscono a ridurre il cortisolo in momenti della giornata in cui tende naturalmente a salire.

Ancora una volta quindi non posso che sostenere che nutrirsi è una questione di equilibrio, che per comprendere come mangiare in modo sano non bisogna aderire ad una moda del momento, ma semmai ricordarsi di quanto complesso sia il metabolismo umano e di quanto connesse siano le varie sfere del nostro organismo.

Inoltre vanno tenute presenti le preferenze personali. Entro certi limiti vale di più ascoltarsi e capirsi che leggere l'ennesimo articolo sulla dieta miracolosa della prossima estate.

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Filippo Ongaro

AUTORE

Filippo Ongaro

Medico degli astronauti dal 2000 al 2007, autore Bestseller, ideatore del Metodo Ongaro® e ambasciatore Still I Rise

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